Galileo assegna al copernicanesimo un significato non solo astronomico, ma un elemento di rottura con il vecchio mondo aristotelico medievale e un inizio di una nuova concezione della realtà.
A differenza di Giordano Bruno, Galileo assegna alla concezione copernicana il valore di punto di convergenza di tutte le nuove ricerche scientifiche, la cui accettazione significa accogliere la metodologia che rende possibili le nuove ricerche scientifiche nella matematica, meccanica e astronomia.
Come sostiene il Geymonat, il peso della teoria copernicana per la filosofia non risiede nel fatto che essa apre la via a nuovi tipi di metafisica, ma nel fatto che rende impossibile la fedeltà al vecchio spirito metafisico.
Anche nel rapporto con la Chiesa, Galileo non si pose mai il problema di un rinnovamento del patrimonio filosofico-teologico della Chiesa, perché per lui, pur essendo un cattolico praticante, il problema religioso non costituiva alcun assillo, ma il suo interesse era rivolto alla potenza organizzativa della Chiesa cattolica e quindi dell’importanza di ottenere alla nuova scienza il suo favore e appoggio.
Galileo considerava la nuova scienza, non come un’attività privata di singoli studiosi, ma come un fatto di interesse pubblico, destinato a permeare di sé l’intera società.
Galileo si ritiene in grado di assumere il compito di ottenere un tale accordo, anche grazie alla fama mondiale acquisita con il Sidereus nuncius e alla protezione assicuratagli dalla potente e cattolica famiglia medicea.
Galileo dovrà, come sappiamo, rinunciare a tale compito con la definitiva sconfitta del 1633 con la conseguente condanna e abiura. Negli anni di arresti domiciliari ad Arcetri, si dedicherà a rielaborare e raggruppare i suoi lavori di meccanica che verranno pubblicati in Olanda nel 1638: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze.
È del tutto chiaro che Galileo non intende addentrarsi in questioni de Fide sia per ragioni di prudenza, sia per il suo costituzionale disinteresse verso problemi di ordine metafisico, sia soprattutto per la necessità che avverte – quale scienziato operante nell’Italia cattolica e controriformista del ’600 – di passare attraverso la Chiesa per diffondere le proprie idee (il che egli vuole perché pervaso dal sacro fuoco di chi si trova a scoprire verità grandiose e semplici eppure lungamente ignorate). Si limita, nella scia della filologia umanistica, a situare la Scrittura nella storia, per poter giustificare quello che gli preme asserire e cioè che, nelle discussioni scientifiche, essa “doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo», e che «quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante”.
Ma così facendo egli in sostanza toglie alla Scrittura ogni sacralità, la pone alla stregua di altri testi, che possono essere esaminati e discussi, addentrandosi in un campo estremamente pericoloso.
Dalla lettera a Benedetto Castelli: [... ] Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità vostra, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo [...] Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader agli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. [...]
Un ulteriore testo, è la famosa lettera a Maria Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana. La lettera rappresenta il tentativo teorico più maturo di Galilei in questo sforzo di chiarificazione e ristrutturazione del rapporto tra saperi, tentativo che mirava alla de-responsabilizzazione della Bibbia dal suo utilizzo come fonte d’autorità nella ricerca scientifica.
Galileo, come si vede, ritiene che quella stessa ragione il cui utilizzo è alla base della conoscenza scientifica possa servire ad appianare ogni eventuale contrasto tra le nuove dottrine e i testi sacri. Lo conforta in questo anche l’opinione espressa qualche tempo addietro dal cardinale Conti, consultato da Galileo stesso, che tra la Bibbia e le sue vedute non esista alcun contrasto insanabile. Ma a noi, alla luce di quello che già stava accadendo in seno alla Chiesa e che sarebbe maturato da lì a poco, la sua fiducia appare quasi una sorta di ingenuità. Tanto più che, a ben guardare, era proprio l’uso allargato dello strumento «ragione» ad allarmare la Chiesa: fosse esso rimasto confinato al mondo ristretto del sapere scientifico non avrebbe rappresentato un pericolo.
Ma Galileo cerca la più ampia diffusione delle sue idee e ha in mente un vasto programma di carattere culturale. Non può quindi sfuggire ai difensori dell’ordine costituito quale minaccia il metodo razionale della discussione e del dubbio, che Galileo ha l’audacia, in pieno clima controriformistico, di applicare ai testi sacri, rappresenti per l’autorità della Chiesa e per i suoi dogmi. E questo al di là della posizione personale di Galileo. Ma la posta in gioco non è certo il credo personale di uno scienziato per quanto illustre. È la sua libertà intellettuale a costituire una minaccia per l’edificio millenario fondato sul dogma.
Ombre minacciose
Nel febbraio del 1632 esce, munito di imprimatur ecclesiastico, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ma già nell’agosto dello stesso anno corre voce che ci sia «qualche riflessione sopra il detto libro per correggerlo o sospenderlo, o forse proibirlo». In agosto ne viene vietata la diffusione e il papa nomina una commissione speciale perché lo esamini. In settembre il Dialogo viene sottoposto alla Congregazione del Sant’Uffizio e in ottobre Galileo, gravemente sospetto di eresia, è convocato a Roma per difendersi. Che cosa è successo, in questo breve lasso di tempo, che giustifichi un tanto rapido precipitare degli eventi?
Urbano VIII, il papa già amico e benefattore di Galileo, è stato accusato dai cardinali spagnoli di simpatie filofrancesi e soprattutto di compiacenza nei confronti della Svezia eretica di Gustavo Adolfo. Quasi isolato, e minacciato di deposizione dai più intransigenti dei suoi nemici, deve poter dimostrare di essere un efficace difensore dei valori della Chiesa restaurata. Inoltre, sul piano personale, egli è «in molta collera» con Galileo in quanto il suo argomento, il cosiddetto argomento di Urbano VIII appunto, è stato sì inserito a chiusura del Dialogo, ma posto sulle labbra dell’ingenuo Simplicio. È da ricercarsi nelle due motivazioni indicate, oltre che nella mai sopita ostilità dei potenti gesuiti, la causa del deferimento di Galileo al Tribunale dell’Inquisizione.
L’epistolario ben documenta, fin dalle prime avvisaglie del pericolo incombente, la viva preoccupazione degli amici di Galileo. Il fitto intrecciarsi delle loro lettere testimonia i passi compiuti per saggiare gli umori del papa, i consulti sul da farsi, le parole di conforto e di incoraggiamento offerte a Galileo. Il quale inizialmente sembra essere il meno allarmato di tutti, al punto da abbandonarsi a una polemica con il devoto allievo Cavalieri, piuttosto che correre ai ripari. Ma forse proprio l’attacco all’amico – Galileo riconoscerà presto di avere ecceduto – è spia di un disagio più vasto e profondo. Egli si sente vittima di una congiura dovuta all’invidia ed è avvilito al punto di pensare di bruciare i propri libri. Prende tempo, spera di poter essere interrogato dall’Inquisitore di Firenze.
Nel tentativo di poter almeno rinviare il viaggio a Roma, scrive una lettera al cardinale Francesco Barberini, che così si conclude: «... quando né la grave età, né le molte corporali indisposizioni, né afflizion di mente, né la lunghezza di un viaggio per i presenti sospetti [di peste] travagliosissimo siano giudicate da cotesto sacro et eccelso Tribunale scuse bastanti ad impetrar dispensa o proroga alcuna, io mi porrò in viaggio, anteponendo l’ubbidire al vivere». Ma poiché è avvertito che il suo temporeggiare rischia di essere interpretato per volontà di sottrarsi al giudizio e quindi di ritorcersi a suo danno, il 20 gennaio – dopo aver redatto testamento – si mette finalmente in viaggio per Roma.
L’inverno è molto rigido, la peste – quella stessa che il Manzoni descrive e che tante morti ha fatto a Milano – serpeggia ora nelle campagne dell’Italia centrale. Roma teme il contagio, i viandanti sono soggetti a quarantena, le merci e la posta vengono affumicate alle porte della città. Non è difficile immaginare lo sgomento che pervade l’animo di Galileo, il conflitto tra timori e speranze, la delusione che la sua lunga battaglia non abbia scalfito l’intransigenza anticopernicana della Chiesa. E anche forse il rimpianto di aver lasciato, a suo tempo, la Repubblica Veneta, da dove l’amico Fulgenzio Micanzio gli scrive: «... qui... certo non le sarìa fatto torto». Il 13 febbraio, dopo aver trascorso alcuni giorni di quarantena, giunge finalmente a Roma. È la prima domenica di quaresima e Galileo è affranto. Ma si ostina a voler credere «che sul fatto alle ragioni ciedono per forza le chimere degli ignoranti», e lo conforta il pensiero che «quelle cose che tendono all’immortalità non hanno a temere la burrasca dei tempi». In attesa del processo, che avrà inizio il aprile, gli è concesso di soggiornare nella residenza dell’ambasciatore fiorentino, piuttosto che nelle celle del palazzo del Sant’Uffizio.
Senza pretese: [Si allega una trasposizione della vita di Galileo, costruita soprattutto sull’Epistolario, che può vedere gli studenti come protagonisti] (galileo-teatro)
L'Abiura
Io Galileo, fig.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giuditio, et inginocchiato avanti di voi Emin.mi et Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’heretica pravità generali Inquisitori; havendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica et insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per haver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata et apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna solutione, sono stato giudicato vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo et imobile e che la terra non sia centro e che si muova;
Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa vehemente sospitione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla S. ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia lo denontiarò a questo S. Offitio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire et osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; et in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiuratione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.